
La poesia problematica e coinvolgente di Vito Viglioglia
Percorso culturale di Mario Santoro (tratto da: Conoscere la Basilicata - Consiglio Regionale della Basilicata)
La poesia di Vito Viglioglia si impone, nell’immediatezza dell’impatto, per la robustezza del linguaggio, costruito senza sbavature, con rigorosità e attenzione terminologica, con precisione nell’impianto sintattico, senza abbandoni ma con un profondo autocontrollo. Inoltre presenta capacità di sapersi connotare come felicemente ambigua nel necessario obbligo della decodificazione, a prima vista non facile, dato il ricorso evidente a un ermetismo che non è mai di maniera.
Ciò rende obbligatoria la rilettura con l’implicito ripensamento e la tessitura di diverse trame capaci di condurre a nuovi svelamenti profondi, altrimenti destinati alla non conoscenza.
E ciò perché sussistono vari livelli che si intrecciano, nelle tonalità mantenute piuttosto costanti anche se, a tratti, presentano altezze variegate o, abbassamenti fin quasi a sfiorare una sorta di sussurro leggero.
Si tratta di poesia sostenuta nella costruzione del verso ed innervata da profondità di sentimenti, da intelligente giuoco di incastro della parola, sovente desueta, nuova, ungarettiana nella sua possibilità di assumere polivalenze di significati, ora ponendosi come carica di sottintesi nel silenzio meditativo e profondo, ora incendiandosi e connotandosi come fiamma e bagliore.
Tali caratteristiche rimandano direttamente al titolo della raccolta delle poesie “Del silenzio e del fuoco”, due termini che sembrano collegarsi bene, con tutto quello che implicano e con le allusioni possibili al di là dei significati letterali.
Non a caso Mariangela Caporale scrive:
“ ‘Del Silenzio e del Fuoco’: due le parole che s’intrecciano, richiamando i luoghi d’elezione del poeta. Immagini, espressioni, parole che raccontano la storia trascorsa tra il silenzio del vulcano ormai spento e il fuoco del vulcano ancora attivo.
Questa genesi geografica si lascia appena cogliere, la riconosco in filigrana e mette in evidenza quella relazione decisiva per la scrittura poetica di Viglioglia, sebbene non totalizzante, tra i tempi d’esistenza e l’ispirazione che questi suscitano, inattesa:
‘…Penso alle viole morte che brillano d’Apollo.
Vedo nuvole in calore che percuotono l’abisso.
Odo viole travestite che danzano d’assurdo.
Odoro spezie che di grano vestite urlano d’immenso.
Sento che di montagne lontano, da dentro,
fra scogliere e tempeste,
si trucca d’avorio.
S’ACQUIETA’.
Quale silenzio, dunque? Il silenzio che articola il tempo senza misura di ogni realtà che resiste alla parola, perché è già subito afasia dell’anima.
Sulle rive del lago leggendario del vulcano, il nitore dello spazio onirico e l’innocenza dell’impulso ideale prendono forma.
E così la poesia di Viglioglia insegue significati muti:
‘Se appartengo al mondo lacero l’anima delle betulle.
E in chiaroscuri di bellezza veggente che i nastri d’argento planano
d’essenza negli AZZURRI.
È nella luna fiera di cera e imbrunire che ci riconquista.’ ”
L’indicazione doppia della Caporale e il riferimento spaziale al vulcano spento che domina la zona del Vulture ci consentono una traccia di percorso geografico ma anche letterario che implica altri riferimenti, come è giusto che sia in poesia.
Il poeta avverte gli influssi del silenzio, che è fisico e spirituale, spaziale e temporale, esterno ed interiore.
Lo avverte sin dall’inizio nella dichiarazione dell’isolamento che lo coinvolge e che tende a farsi totale:
“La mia sera è pensierosa.
Muoiono nei riflessi neri,
lacrime di pioggia.
Io, sulla riva della morte,
Io,
sulla cima dove il fiume di Caronte
straripa”.
La natura del silenzio è qui fin troppo chiara, richiama uno spazio concreto eppure, per certi versi, impalpabile, e rimanda a un tempo, ugualmente inafferrabile costituendo una sorta di linea curva che tende a chiudersi o meglio a farsi spirale per un procedimento inarrestabile e senza fine e attraverso una versificazione, talora inindulgente, concreta, realizzata con nessi e costrutti apparentemente faticosi e certamente sofferti.
“L’avanzo di vento,
come freschezza d’amore
fra sterminate lune di viola fiorito.
Eros, dalla chioma d’incanto
d’eterno tramonto sul mare.”
In questo caso la poesia si appoggia su elementi specifici che fungono da punti guida o da tasselli specifici: vento, amore, lune di viola fiorita, eros, mare.
Si creano situazioni inafferrabili o appena palpabili, rette da fili sottilissimi e pronti a spezzarsi da un momento all’altro, ma, miracolosamente, intatti nell’ordito tenue e resistente.
Altrove il silenzio sembra aderire completamente alla linea bianca della luna che diventa dama serena e malinconica, un po’ “secentista” un po’ campaniana ed a tratti richiama lo stupore ingenuo e incantevole rievocato sovente da Diego Valeri, ma solo per qualche frangente:
“Dama serena e melanconica.
Indossava veli notturni.
Era bellezza smarrita in un cielo scomparso.”
Procede così il cammino di Vito Viglioglia che talora indulge sulla riflessione pensosa, nell’attimo pausativo o nella soprasegmentalità dei significati, con il rilievo tagliente e impressivo e sempre pronto a mutare direzione e indirizzo, impedendo quasi la sosta prolungata, il respiro profondo, la meditazione.
Talvolta egli affida il suo tormento interiore a poche parole, capaci di produrre immagini, nell’incastro reso ad arte particolare, senza cercare effetti dirompenti ma in maniera da apparire del tutto naturale ed in questo la poesia tende a farsi matura.
Anche quando si muove per flash, anche quando si appoggia a inferenze o a pensieri schematici o scheletrici, quasi folgorazioni improvvise o respiri corti, resi al meglio da composizioni brevi e per di più senza titolo.
Si può leggere allora:
“A volte,
fra parte e parte,
nelle forme della materia,
c’è tutt’altro che il mondo.”,
oppure:
“Nei suoni dei porti calmi c’è la vertigine dell’inizio,
l’alba degli incontri, i colori del momento.
‘Arancione!’, e vedo.”,
o ancora, con una certa sentenziosità:
“Amare è patire eternamente il proprio infinito.”,
o, infine, con il senso della consapevolezza:
“Ciò che è vano deve essere rispettato come ciò che è vero.
Vado per andare in nessun dove, in un tutto presente.
Tutto è già dato come ciò che sto dicendo”.
E così tornano prepotenti immagini, riferimenti, intrecci, situazioni da cogliersi nel dato dell’immediatezza e tali da indurre altri rimandi e richiami.
Ora si tratta di “ruvidi seni dell’ignoto”, ora di “capezzoli dell’incomprensione” che “s’induriscono come alghe al sole”; altre volte il registro sembra mutare e si perviene ai “suoni di sempre” che sanno finanche “d’agrodolce rimpianto”.
Accade così che, sempre più spesso, al poeta capiti, magari inavvertitamente, di cedere alla “melanconia”, talora anche al rammarico per l’amore che sembra svanire in un orgasmo.
Si crea, dunque, una situazione di dubbio, quasi di smarrimento, se non a tratti di straniamento, eppure il poeta dichiara di non cercare la verità, forse perché egli stesso ne è parte integrante.
Ma quale verità? Quella che il poeta sembra dichiarare, puntando su un “io” addolcito, oppure l’altra, quella di cui il poeta non parla e non sappiamo se ciò avviene di proposito:
“Sono il crepuscolo eretto fra i rumori della pioggia
e la luce debole delle strade vuote.
Sono l’oblio
scomposto
dalla catastrofe annunciata…
…
Olio su pane bruciato.
Acerbo albume colorato.
…
Rassegnato,
per passione,
ecco chinarsi il capo,
tra vuoti
colmi di mari.”
Ma la verità può anche essere quella che appare nella poesia “Visione”, tutta votata alla positività non solo sul piano contenutistico-argomentativo ma anche della modalità poetica e poggiata fortemente sul verbo al futuro presente posto generalmente all’inizio delle strofe, proprio a dar forza alle intenzioni.
Accade così che se la luce, a cui il poeta tende, compare dopo l’abisso, coprirà d’eterno il suo corpo:
“Sarà senza sbalzi
di vuoto
e nulla supremo.
Vestirà d’acciaio
la propria carne
su un altare di sangue caldo
e lucido.”
Pure tanta certezza spesso cede il posto al timore, e talvolta, il poeta sente il bisogno di monologare in maniera anche insistente come risulta dalla ripetizione concettuale, con funzione ridondante, e come appare dall’anafora ricorrente,
E’ quanto accade in una delle poesie, ovviamente, senza titolo (ovviamente nel bisogno di non ricorrere all’esplicativo e di non cadere nel referenziale denotativo):
“No so parlarti di me.
Perché le ceneriere hanno più senso.
Perché gli altri venti sono aurora, vitigni d’ombra.
Spettri d’amore.
Perché la pelle non volendo mi falcia l’iride.
Perché la sera m’ama.
Perché assimilo i tramonti.
Perché profumo d’anima…”
La poesia si muove su percorsi diversificati, in una ricerca continua di se stessa, senza mai trovarsi, come è giusto che sia.
Qualche volta si fa ariosa, piena, suadente, pronta a cedere, a raccontare l’incanto e la piacevolezza del sentimento, a cantare la bellezza senza veli e nascondimenti.
Ed è quanto accade in “Annalisa”:
“…Sbocci nelle terre senza culto,
nelle feste della luce.
Ricuci l’anima interrotta,
leccando il palato del tempo.
Mi vesti di spazio per vivermi.
Festeggiandoti.
E portandomi il mistero,
mi baci.
Carezzi le campane…”
Tensioni, propositi, desideri, ansie, inquietudini, si intrecciano e si complicano anche se l’autore sa districarsi bene, tiene a bada il miscuglio delle sensazioni e delle emozioni e mantiene un’attenzione assai vigile sul linguaggio, convinto com’è che la poesia resta essenzialmente linguaggio come il solo capace di unificare le spezzettature argomentative, i contrasti inevitabili tra l’amore, nella sua vasta gamma delle manifestazioni e la noia che esso ingenera, talvolta.
E questo soprattutto quando il fuoco, di cui al titolo, brucia e consuma il dolore, la sofferenza, la passione e allora non resta altro che la parola, non quella comune ma quella poetica, capace di ricorrere a valide figure retoriche e a farsi, di volta in volta, strumento potente.
Ed è proprio sulla linea della parola e del linguaggio che si può pervenire, tra mille spezzettature, a una idea di unità, la stessa da cui il poeta parte, come sottolinea Mariangela Caporale:
“Eppure dalla raccolta affiora l’unità originaria di questo tempo e di questo spazio duali, come del loro movimento ispiratore.E con questo richiamo all’unità originaria, ci piace chiudere il percorso poetico letterario di Vito Viglioglia la cui strada da percorrere è sicuramente lunga ma egli è ben incamminato.
Vito Viglioglia |
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Nasce a Melfi nel 1980. Vito Viglioglia è laureato in Filosofia all'Università Federico II di Napoli con una tesi in Storia della Filosofia morale dal titolo "Musica e mistero per un'ontologia della morale". È musicista, cantante, chitarrista, autore e compositore di diversi progetti musicali. A partire da "Soluzione Mawda" (Notturno, 1999-Ars Combinatoria, 2000); "Babele" (Babele Live Studio, 2003); "7 Rose Più Tardi" (Fra cielo e pace, 2006-Ermetica, 2009). “Vitus”(Home Love Recording, 2013-Pieno di grazia, 2015- 3, (2016). “Meteopanik” (2017) In qualità di poeta ha pubblicato le raccolte "Del silenzio e del fuoco" (Stes Potenza, 2005); "Prose e Spose" (Aracne Editrice, Roma, 2011). “In dissolvenza” (Lucaniart, San Severino Lucano Pz, 2012). |